L'Iperione di Friedrich Holderlin mi ha dato un nuovo spunto per una riflessione tutt'altro che oziosa. Più proseguo nella lettura e più mi sento vicino a questo personaggio così lontano nel tempo e, tuttavia, così vicino.
Iperione afferma che è la natura la sua più grande fonte di gioia e contentezza, mentre la vicinanza degli uomini gli diviene sempre più insopportabile poiché sente di non essere compreso.
Quando tentava di parlare di bellezza dell'anima e di virtù, la gente rideva e scappava davanti a quella scintilla di ragione, come fa un lupo davanti al fuoco. Se Iperione pronunciava una calda parola sull'antica Grecia, essi sbadigliavano e ritenevano si dovesse vivere nel tempo presente e subito si facevano battute da marinai di sottordine. Qualcuno, addirittura si atteggiava da illuminato e sbeffeggiava gli uccelli del cielo, perché, l'unico uccello importante, lo teneva in mano.
Ma se si faceva riferimento alla morte, subito tutti giungevano le mani in preghiera e si finiva per parlare di quanto decaduti fossero i preti.
Alla fine Iperione si arrende all'evidenza e decide di isolarsi piuttosto che continuare a cercare "uva nel deserto e fiori su campi di ghiaccio."
Viveva deliberatamente solo e il "gaio spirito" della sua giovinezza era quasi completamente scomparso dalla sua anima.
Gli venne anche a mancare la consolazione, la speranza, di trovare il suo mondo in una anima e di abbracciare la sua stirpe in un'immagine amica.
"Mio caro, che sarebbe la vita senza speranza? [...] Nulla vivrebbe, se non sperasse. Il mio cuore chiuse in sé, allora, i suoi tesori, ma soltanto per serbarli per un tempo migliore, per quell'essere unico, sacro, fedele che, certamente, in un qualche periodo della sua esistenza, verrà incontro alla mia anima assetata."
Spero che questo breve passo vi dia lo spunto per una riflessione interiore profonda. Se non lo fa, spero solo sia perché non avete mai provato nulla del genere e quindi non vi rispecchiate nelle sue parole.
FiR
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