domenica 27 dicembre 2015

Alexandre Marius Jacob, il vero Lupin

In realtà sono solo delle ipotesi che collegano Alexander Marius Jacob alla figura letteraria di Maurice Leblanc. Tuttavia quest'uomo non è meno interessante e degno di nota.
Nasce in Francia il 29 settembre 1879. A sedici anni ritorna in Francia dopo cinque anni passati in mare a bordo di una baleniera. Durante il viaggio incontra un anarchico: questo sarà l'inizio di una nuova vita per Jacob.
Inizia a rubare con la sua banda, soprannominata dai giornali I lavoratori della notte. Gli obiettivi dei loro furti erano ricche persone e borghesi: un vero attacco al potere. I frutti del loro lavoro venivano reindirizzati per finanziare opere libertarie e associazioni anarchiche.  Nessuna cassaforte poteva resistergli ed erano imbattibili nei travestimenti.
Il 21 aprile 1903 Alexandre fu arrestato in seguito a una rapina andata male. Ricevette la grazia nel 1928 e si rifece una vita.
Si suicidò con un'iniezione di morfina il 28 agosto 1954 durante una festa in casa sua. Nella lettera d'addio, scrive: "... Ho vissuto un'esperienza piena di avventure e sventure, mi considero soddisfatto del mio destino. Dunque, voglio andarmene senza disperazione con il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. Ho vissuto. Adesso posso morire. P.S. Vi lascio qui due litri di vino rosato. Brindate alla vostra salute. "

Questa è la dichiarazione di Alexandre Marius Jacob pronunciata l'8 marzo 1905 durante il processo alla banda nel tribunale di Amien.



"Signori,
Adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più. Ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. Non sollecito ciò che odio e che disprezzo. Siete i più forti, disponete di me come meglio credete. Inviatemi al penitenziario o al patibolo, poco m’importa. Ma prima di separarci, lasciatemi dire un’ultima parola…
Avete chiamato un uomo ladro e bandito. Applicate contro di lui i rigori della legge e vi domandate se poteva essere differentemente. Avete mai visto un ricco farsi rapinatore? Non ne ho mai conosciuti. Io, che non sono né ricco né proprietario, non avevo che queste braccia e un cervello per assicurare la mia conservazione, per cui ho dovuto comportarmi diversamente. La società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro, la mendicità e il furto.
Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. L’uomo non può fare a meno di lavorare: i suoi muscoli, il suo cervello, possiedono un insieme di energie che deve smaltire. Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei stato sfruttato. In una parola, mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. Il diritto di vivere non si mendica, si prende.
Il furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui avevo diritto, ho preferito insorgere e combattere faccia a faccia i miei nemici, facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. Comprendo che avreste preferito che mi fossi sottomesso alle vostre leggi, che operaio docile avessi creato ricchezze in cambio di un salario miserabile, e che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, mi fossi lasciato crepare all’angolo di una strada. In quel caso non mi avreste chiamato “bandito cinico”, ma “onesto operaio”. Adulandomi mi avreste dato la medaglia al lavoro. I preti promettono un paradiso ai loro fedeli, voi siete meno astratti, promettete loro un pezzo di carta.
Vi ringrazio molto di tanta bontà, di tanta gratitudine. Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariatide.
Dal momento in cui ebbi possesso della mia coscienza, mi sono dato al furto senza alcuno scrupolo. Non accetto la vostra pretesa morale che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi.
Ritenetevi fortunati che questo pregiudizio ha preso forza nel popolo, in quanto è proprio esso il vostro migliore gendarme. Conoscendo l’impotenza della legge, o per meglio dire, della forza, ne avete fatto il più solido dei vostri protettori. Ma, state accorti, ogni cosa finisce. Tutto ciò che è costruito dalla forza e dall’astuzia, l’astuzia e la forza possono demolirlo.
Il popolo si evolve continuamente. Istruiti in queste verità, coscienti dei loro diritti, tutti i morti di fame, tutti gli sfruttati, in una parola tutte le vostre vittime, si armeranno di un “piede di porco” assalendo le vostre case per riprendere le ricchezze che essi hanno creato e che voi avete rubato. Riflettendo bene, preferiranno correre ogni rischio invece d’ingrassarvi gemendo nella miseria. La prigione… i lavori forzati, il patibolo… non sono prospettive troppo paurose di fronte ad una intera vita di abbrutimento, piena di ogni tipo di sofferenze. Il ragazzo che lotta per un pezzo di pane nelle viscere della terra senza mai vedere brillare il sole, può morire da un momento all’altro, vittima di una esplosione di grisou. Il muratore che lavora sui tetti, può cadere e ridursi in briciole. Il marinaio conosce il giorno della sua partenza ma ignora quando farà ritorno. Numerosi altri operai contraggono malattie fatali nell'esercizio del loro mestiere, si sfibrano, s’avvelenano, si uccidono nel creare tutto per voi. Fino ai gendarmi, ai poliziotti, alle guardie del corpo che, per un osso che gettate loro, trovano spesso la morte nella lotta contro i vostri nemici.
Chiusi nel vostro egoismo, restate scettici davanti a questa visione, non è vero? Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, signori, credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione, invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male.
Le misure coercitive non possono che seminare l’odio e la vendetta. È un ciclo fatale. Del resto, fin da quando avete cominciato a tagliare teste, a popolare le prigioni e i penitenziari, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Per quanto mi riguarda sapevo esattamente che la mia condotta non poteva avere altra conclusione che il penitenziario o la ghigliottina, eppure, come vedete, non è questo che mi ha impedito di agire. Se mi sono dato al furto non è per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi l’artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato.
Certo anch’io condanno il fatto che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del furto dell’altrui lavoro. Ma è proprio per questo che ho fatto guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri. Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto fosse impossibile. Non approvo il furto, e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale.
Per eliminare un effetto bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché “tutto” appartiene solamente a “qualcuno”. La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti.
Anarchico rivoluzionario, ho fatto la mia rivoluzione, l’anarchia verrà!"



Ho evidenziato alcuni punti perché ritengo siano un ottimo spunto di riflessione. Riflettiamo!

Frank il Rosso.


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